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Salvatore Di Giacomo e il cinema delle origini

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Che evento sarebbe stato, a 90 anni dalla scomparsa di Salvatore Di Giacomo, il ritrovamento della versione cinematografica di Assunta Spina diretta nel 1929 da Roberto Roberti, al secolo Vincenzo Leone, regista principe del muto e padre di Sergio. Per Roberti doveva trattarsi dell’ultimo film muto, prima di un ostracismo decennale per le sue idee antifasciste. Un congedo amaro: la critica non gli perdonò una riduzione originale e moderna del capolavoro dello scrittore napoletano (“La stiratrice Assunta Spina in costume da bagno all’americana tra i giocatori di water polo, con le gonne corte e i capelli alla garconne!”, tuonò il quotidiano Il Tevere) e lo stesso sceneggiatore Gaetano Campanile Mancini prese le distanze dal film, che pure si avvaleva di due divi dell’epoca come Rina De Liguoro e Febo Mari.

Senza dubbio pesò anche il confronto con la prima, e tuttora più celebrata, versione per il grande schermo, interpretata nel 1915 dalla più grande diva italiana, Francesca Bertini, di cui peraltro Roberti era il regista prediletto. Un confronto che finì per penalizzare persino la più brillante e popolare attrice italiana del dopoguerra, Anna Magnani, che nel 1948 indossò i panni dell’eroina di Di Giacomo accanto a Eduardo De Filippo, per la regia di Mario Mattoli. A vantaggio di Bertini giocava il suo essere napoletana: il personaggio di Assunta Spina lo sentiva, fino a imporre alla produzione non solo di interpretarlo ma finanche di dirigere il film con Gustavo Serena.

È all’intuizione di Salvatore Di Giacomo, del resto, che il cinema italiano doveva la scoperta della sua star più acclamata nel mondo. Grazie alla sua intuizione Francesca Bertini (nata Elena Seracini Vitiello) potè esordire appena 16enne nel cortometraggio La dea del mare (1907) e due anni dopo in teatro proprio in Assunta Spina, in un ruolo minore, per poi diventarne indimenticabile protagonista al cinema. Il successo del film spinse Di Giacomo a scrivere una sceneggiatura da ‘O voto, con il titolo L’ignoto, affidandola a Serena (che nel 1915 aveva già diretto la trasposizione di A San Francisco), e un Epilogo di Assunta Spina, ritrovato e pubblicato nel 1990 da Ettore Massarese, entrambi non realizzati, come Arria Marcella e L’Angelus, che testimoniano tuttavia inequivocabilmente l’attrazione del poeta per il nuovo mezzo artistico e per le possibilità inedite offerte dal suo linguaggio, sulla scia di Cabiria sceneggiata da Gabriele D’Annunzio. Fu Di Giacomo a percepire per primo quella svolta epocale (“A D’Annunzio – scrisse – spetta il merito di essere stato il primo a curare davvero la plasticità della colorazione del quadro cinematografico”), che accreditò come arte “nobile” quello che fino ad allora veniva considerato, non solo in Italia, un passatempo “per militari e servette”.

Quell’apertura di credito da parte di Di Giacomo non è stata ripagata adeguatamente dal cinema italiano, nonostante i generosi tentativi nel dopoguerra di Mattoli e, due anni dopo, di Mario Bonnard, che diresse la versione parlata di ‘O voto, con Doris Duranti, Maria Grazia Francia, Giorgio De Lullo e (non accreditata nei titoli di testa) una giovanissima Sophia Loren. Miglior sorte avrebbe meritato, nel 1952, anche Un ladro in Paradiso, dalla celebre commedia eduardiana De Pretore Vincenzo (ispirata a una poesia di Di Giacomo, Lassamme fa ‘a Ddio), con regia di Domenico Paolella, sceneggiatura di Giuseppe Marotta e Peppino Amato, protagonista Nino Taranto.

Il corpus drammaturgico di Salvatore Di Giacomo, tuttavia, resta un catalogo di straordinarie suggestioni filmiche anche per i cineasti di oggi.

Fonte: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2024/12/27/news/salvatore_di_giacomo_e_il_cinema_delle_origini-423908360/?rss

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