“Giorno dopo giorno: parole maledette e il sangue e l’oro. Vi riconosco miei simili, o mostri della terra”. È poesia di Salvatore Quasimodo che si sviluppa intorno al tema dell’uomo che nel corso della storia ha modificato solamente il modo di combattere, non ha mai voluto davvero ripudiare la guerra e anche oggi guerreggia e per questo resta allo stato primitivo. Questa denuncia riguarda le guerre di tutti i tempi, anche se nello specifico egli si rivolge ai tragici eventi della Seconda guerra mondiale. In chiusura il poeta si rivolge alle generazioni future, invitandole a non commettere gli stessi errori del passato e a impegnarsi per giungere davvero a sopprimere la violenza e la brutalità, costruendo un mondo basato sull’amore, sul rispetto e sulla pace. Un mondo basato sull’amore, già, e quanto ne avremmo bisogno, oggi, adesso.
L’uomo moderno, dimentico della pace indispensabile al bene comune, invece si è costituito sempre di più trasformando i diritti universali in diritti individuali, nell’egoismo de “i miei diritti” contro il bene comune. Questo vale anche a livello delle nazioni: la guerra giusta, per esempio, e molti dicono che ce ne siano, semmai una guerra possa dirsi giusta, è sempre quella che faccio io, difendendo il mio diritto “presunto” contro l’aggressore di turno.
Tale mentalità peraltro descrive anche la non equa distribuzione dei beni, delle risorse, che comunque generano violenza, disordini, proteste, diseguaglianze. Non c’è sviluppo, non c’è pace senza rispetto tra gli uomini. La difficile congiuntura internazionale, provocata dalla crisi economica post pandemica, sta ormai investendo il mondo, anche se da sempre sappiamo che un’economia basata sulla costante violazione del rispetto tra gli uomini può condurre a pericolosi cataclismi sociali.
Mai avremmo potuto immaginare di doverci trovare di nuovo a ribadire quanto, all’indomani del Concilio Vaticano II, affermava Paolo VI: “Oggi, il fatto di maggior rilievo, del quale ognuno deve prendere coscienza, è che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale” (PP 3). E mentre sussiste ed è grave una questione sociale aperta, la politica sociale di questo Paese, dell’Europa che si va riorganizzando dopo il voto di domenica scorsa, è praticamente scomparsa dall’agenda politica. Non sarà forse anche questo un motivo della disaffezione al voto? Non vorrà dire qualcosa se il voto di protesta che sta sconvolgendo gli asset politici di importanti nazioni rimandano al tradimento di quelle idealità che raccontavano più eguaglianza e più inclusione sociale dei cittadini? Oggi, nel passaggio dall’era postindustriale a quella definita postmoderna, di fronte a una crisi economica di proporzioni mondiali, che ora pare accanirsi sull’Europa, ci rendiamo conto che, incapaci d’interpretare i segni dei tempi, non abbiamo saputo guardare al futuro e, mentre fino a ieri ci sentivamo orgogliosi consumatori a oltranza, ci ritroviamo ora a chiedere certezze, aiuto, addirittura a gridare: “Non abbiamo pane”. Ancora una volta dobbiamo constatare che non i corsi e i ricorsi storici, che si vorrebbero imputare al capriccio del fato o a una ferrea legge dell’eterno ritorno, ma la cupidigia, la superficialità, l’egoismo, uno sconsiderato criterio produttivo dominato esclusivamente da un modello di sviluppo di tipo economicistico ci spingono di nuovo a porre in primo piano il problema della diseguaglianza e dell’ingiustizia.
E mentre allo spettro della disoccupazione massiva, particolarmente dolorosa quando colpisce i giovani, si aggiunge, soprattutto nella nostra terra, alla piaga dei disoccupati storici, dei precari, dei senza tetto, delle famiglie che non riescono ad arrivare a fine mese, alla solitudine degli immigrati che, approdati da noi in cerca di futuro, si ritrovano agli angoli delle strade, sfruttati talvolta dalla malavita, a chiedere l’elemosina o ad accettare lavoro nero, è quanto mai urgente richiamare la collettività all’etica del bene comune, a una pianificazione sociale capace di garantire “con inviolabile imparzialità la giustizia cosiddetta distributiva” (Leone XIII, Rerum Novarum, 15 maggio 1891, 27). Come siamo lontani dall’Europa dei popoli, come siamo lontani dall’unità di nazioni che si spendono non solo per meglio capitalizzare l’interesse dei singoli Paesi, ma per il bene comune che unico può garantire davvero la pace.