Le parole sono scrigni che raccontano storie, che svelano disegni, che lanciano sfide di significato. Per qualcuno che le parole mutino per raccontare il vissuto è un’offesa al vocabolario, la nostra sacra lingua va messa sotto tutela “rispetto alle differenze di genere” per “preservare l’integrità della lingua italiana e in particolare, evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici dai tentativi ‘simbolici’ di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo”.
Un rischio che per qualche nostro onorevole parlamentare è tale che l’uso improprio negli atti pubblici di titoli finora propri dei maschi detti al femminile corromperebbe il valore e il significato del nostro idioma. Sbagliato ma anche illecito dire allora avvocata. Non so che ne penserebbe Maria la madre del Maestro. Nessuno si meraviglia che da sempre recitando il Salve Regina, il latino advocata nostra, venga tradotto con Avvocata nostra. Maria è avvocata, non avvocato. Forse qualcuno ha sbagliato la traduzione?
Il femminile non è una trovata disdicevole di oggi, la lingua italiana, come il latino d’altra parte, contempla la declinazione al femminile anche di termini che nascono come maschili. La lingua si evolve con la società. Se le professioni che un tempo erano esclusivamente riservate agli uomini vengono aperte alle donne, la lingua, nella sua duttilità, si adegua, non per gusti di moda, ma perché riconosce i cambiamenti in atto.
E sono i cambiamenti che rendono viva una lingua che si dice viva proprio perché agganciata alla vita reale, vera, sottoposta come tutti quelli che accettano la sfida del tempo a fare i conti con il suo mutare. Se così non fosse la lingua morirebbe costretta al suo passato, sacrificata a essere un museo da visitare e non uno strumento da utilizzare.
Il linguaggio cosiddetto inclusivo, proposto e difeso dalle donne negli ultimi anni, va di pari passo con il riconoscimento della dignità del genere femminile che non va svalutato, nascosto o negato. Non è una pretesa rivendicativa, ma una necessità che dà dignità alle persone riconosciute nella loro specificità di genere. Dietro il maschile, infatti, si tende a rendere invisibili le donne. Non credo che qualcuno abbia presentato fino ad oggi un disegno di legge per evitare dal linguaggio ufficiale parole in uso nella rete, che ogni volta che un parlamentare dica la sua sugli scanni di Montecitorio faccia sciacquare le sue parole nelle acque della Crusca, ora sembra assai singolare che uno di loro si preoccupi “per solo amore della lingua” di tutelarla dall’incursione impropria del femminile negli atti pubblici. Il termine maschile, storicamente, è stato valutato più adeguato a rappresentare la dignità delle funzioni e, per questo, anche tante donne lo preferiscono, ma, proprio per questo motivo, è importante usare i termini declinati al femminile per dare loro uguale dignità.
Nella scuola non ci si meraviglia di chiamare direttrice la dirigente scolastica, perché ci si scandalizza se nella direzione di un’orchestra si usa il termine direttrice? È forse svalutante? Se i termini esistono, perché non usarli? Non è stato forse naturale chiamare le sovrane come imperatrici, regine o zarine e non imperatore, re o zar? La lingua è viva e vive con i cambiamenti degli esseri umani che la vivono e che hanno anche la libertà di coniare nuovi termini quando la lingua è inadeguata alla funzione. Anche il linguaggio religioso sta cambiando per raggiungere chi la fede la vive ora. Salutare un’assemblea liturgica dove il novanta per cento dei presenti è costituita da un pubblico femminile con il termine “Fratelli” è quantomai inadeguato alla realtà. Per questo gli stessi testi liturgici contemplano l’uso di “Fratelli e sorelle”. E nella riflessione teologica si fa sempre più presente non solo l’uso di termini come diacona, apostola, termini che una volta erano riservati soli a maschi, ma anche la ricerca di un linguaggio più adeguato per narrare Dio che non può essere intrappolato nelle sole categorie del maschile e che può essere declinato anche al femminile senza perdere dignità visti che siamo fatti a sua immagine. Parole che sono significanti se ancora trovano significato nella comprensione di chi le usa. Non certo una qualsiasi proposta di legge può rendere la parola simbolicamente più pura, quanto piuttosto la vita che scorre nelle sue lettere catturate oltre il simbolo, comprese oltre la scrittura.