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Secondigliano fu una transizione importante per la bambina e l’adolescente che sono stata, un luogo che mi ha cresciuta cosciente che non mi avrebbe tenuto a sé per sempre. Sapevamo di non fare l’uno per l’altra, ci siamo lasciati con affetto, come chi decide di separarsi e non butta né i regali né i ricordi.
Ero una bambina che osservava tutto dalla finestra nelle classi di Scampia o dall’alta palazzina – eravamo al dodicesimo piano – da cui si poteva intravedere la bellezza del Vesuvio. I palazzi erano a schiera, tutti grigi e della stessa altezza, potevo distinguerli solo provando grazie ai panni stesi al sole. Ho in mente la fotografia del volto terrorizzato di mia nonna ogni volta che mi sporgevo in avanti lungo la ringhiera celeste quando lei si voltava un secondo a stendere il bucato. Gettava ai piedi la bacinella, urlava il nome di mia madre e le ordinava di portarmi via da lì o sarei finita di sotto insieme alle sue mollette blu. Ho lasciato Secondigliano per seguire mia madre, lasciando lì i ricordi d’infanzia e i peluche a cui non avevo mai dato un nome.
Ci ripenso spesso alla camera in cui sono cresciuta, e quando mi capita di tornarci sento quanto stretta mi sta, come il mio corpo e le mie ombre possano occupare angoli che prima erano inavvicinabili.
Ricordo tutti i cereali mangiati davanti ai cartoni animati così come ricordo mia madre aprire il balcone la mattina per lasciar entrare la luce e cambiare l’aria (perché non lo cantava solo Pino Daniele che l’aria si deve cambiare, ma anche mia madre Antonietta). Forse è stato proprio a Secondigliano che ho capito che lavoro avrei voluto fare da grande, quando ho iniziato a consolidare l’idea che la scrittura, la creatività, il raccontare storie era ciò che mi rendeva felice. Una prima restituzione non fu nei libri scritti, ma quando tornammo a trovare la nonna e ci fermammo a prendere una pizza fritta – c’era un piccolo chioschetto che le faceva ogni domenica mattina da quando ero bambina – e Aiello, il pizzaiolo, disse che mi leggeva molto e che era tanto felice per me.
A Secondigliano ho conosciuto tante persone che facevano lavori tra i più disparati, i più umili, i più complessi, quelli che bastava affacciarsi dalla finestra e vederli passare con il carretto e il microfono in modo che nemmeno al dodicesimo piano mancassimo di sapere cosa offrisse il mare quella mattina. Sapevo che c’erano tanti lavori diversi da fare, ma non pensavo che fosse possibile perderci la vita sul lavoro. Invece sì, si può morire per mano del lavoro, anche quando si ha diciannove anni e tanta voglia di vivere.
Patrizio Spasiano è morto a causa di una fuga di ammoniaca da cui non è riuscito a scappare, si trovava troppo in alto, sopra un’impalcatura. Forse alla stessa altezza dei palazzi da cui mi affacciavo io da bambina e vedevo tutta Napoli Nord. Patrizio da lì non è più sceso. Ciò che hanno visto i suoi occhi per l’ultima volta non può essere stato altrettanto bello, ma ciò che vediamo noi non può lasciarci indifferenti ancora a lungo. Dobbiamo ripetere il nome di Patrizio affinché sia l’ultimo, dobbiamo far sì che si parli di lui con la stessa rabbia che abbiamo dentro quando dei giovani muoiono per strada, perché un dubbio che avvolge le istituzioni è quello di pensare che, se una morte è non propagandabile, allora non è degna di essere raccontata e il problema combattuto. Le parole della madre di Spasiano sono delicate e taglienti al tempo stesso: non ha mai smesso di chiamarlo, voleva che sentisse la sua voce, non voleva che pensasse fosse solo. Le centinaia di persone in corteo a Secondigliano che ne hanno chiesto giustizia, aiuteranno a far sì che la sua voce possa sentirsi da tutti i piani.