
È in libreria “Scrivimi – Lettere 1967-1992”, il carteggio tra Elena Croce e Camilla Salvago Raggi (Rubbettino editore, euro 18). Pubblichiamo di seguito la nota introduttiva al volume di Benedetta Craveri.
***
«Nei libri delle scuole elementari si dice che bisogna rendersi utili alla società. Ebbene, io ho, come motivo dominante, questo rendermi utile alla società», scriveva Benedetto Croce a Emilio Cecchi in una lettera “manifesto” dell’11 settembre 1911. Nata quattro anni dopo, la figlia Elena non ebbe bisogno di andare a scuola per fare suo l’esempio paterno e il carteggio con Camilla Salvago Raggi ne costituisce una nuova, significativa conferma.
Iniziata alla fine degli anni Sessanta questa corrispondenza, che grazie al suggerimento e alle cure di Stefano Verdino approda ora alla pubblicazione a trent’anni dalla morte di Elena e a cento dalla nascita di Camilla, si iscrive sotto il segno dell’affinità elettiva. Il tratto che dà l’avvio alla loro lunga conversazione epistolare è l’interesse che entrambe nutrono per una narrativa autobiografica incentrata sull’esigenza di dare testimonianza del mondo dell’infanzia e della società in cui si erano formate. È Camilla per prima a prendere la penna, dopo la lettura ammirata dell’Infanzia dorata, ed Elena, com’è suo solito fare con le persone di cui intuisce il talento (non a caso Cesare Cases la definirà «l’ultima levatrice di intellettuali»), non esita a suggerirle di cercare ispirazione, piuttosto che nell’autoanalisi, nella storia della sua famiglia e delle sue radici genovesi.
Camilla la ripaga dei consigli lungimiranti con una riconoscenza ammirata che induce la sua corrispondente a confidarle con understatement e autoironia il proprio «donchisciottesco» bisogno di rendersi utile, di reagire a una società dimentica del suo passato e senza antidoti contro le insidie del consumismo e della civiltà di massa. «Il pessimismo politico che incombe – scrive Elena nel 1972 – mi è insopportabile, purtroppo non riesco a trovare giustificazioni contro se non occuparmi di piccole, modeste cose concrete che quelle esistono sempre». Le «piccole cose» sono le sue battaglie incessanti, e spesso coronate da successo, per la difesa del paesaggio italiano (di cui suo padre aveva promosso, in qualità di ministro della Pubblica istruzione, la prima legge di tutela, approvata nel 1922); il sostegno agli scrittori spagnoli antifranchisti in esilio in Italia, a cominciare da Maria Zambrano; l’impegno nel fare conoscere le opere degli scrittori russi perseguitati come Solženicyn, colpevole agli occhi degli intellettuali italiani di mancare di stile: «Una parola che non riesco più a pronunciare con naturalezza perché mi sembra che chi scrive avendo qualcosa da dire non si addossa volentieri questa parola malfamata». Non meno taglienti sono le sue annotazioni sullo «snobconformismo» degli scrittori à la page, che credono di poter essere «compagni di viaggio della moda senza venire al più presto soppressi».
E c’è da chiedersi se sia «il penchant moralistico di cui non riesce ad affrancarsi», o forse la sua insofferenza per l’involuzione estetizzante delle élites di cui aveva reso conto in Lo snobismo liberale, a farle dichiarare, tout court, la sua «antipatia per l’eleganza», che è diventata la preoccupazione dominante degli italiani e finisce per renderli ridicoli. Non è difficile accorgersi, leggendo queste lettere, con quanta fedeltà, e insieme con la sensibilità e le armi che le sono proprie, Elena riprenda l’insegnamento del padre e se ne serva per affrontare con energia, originalità e pragmatismo i molti problemi a cui si sente tenuta a dare risposta. E leggendo le repliche di Camilla si capisce bene come il suo tatto naturale di gran dama, la franchezza di giudizio e l’impegno di scrittrice indipendente avessero fatto di lei un’interlocutrice preziosa, un’alleata, un’amica.