martedì, 22 Ottobre, 2024
19.7 C
Napoli

Daniele Pitteri: “Guardando Chaplin ho capito che la passione può diventare un lavoro”

- Advertisement -https://web.agrelliebasta.it/la-mattina/wp-content/uploads/2021/01/corhaz-3.jpg

Manager dell’arte e cultura, docente universitario. «Ma ho cambiato vita molte volte», racconta Daniele Pitteri: ad della “Fondazione Musica per Roma”, che gestisce Parco della musica e Casa del jazz, ma anche docente di discipline artistiche allo Iulm.

Ha cambiato molte volte, Pitteri, ma sempre guidato dalla passione per l’arte e la cultura…

«Sono nato a Napoli nel 1960. Padre veneziano, madre napoletana. Cresciuto in una casa piena di libri e di musica, mio padre era un critico. Ma non ho cominciato a leggere prima dei sedici anni, prima praticamente non l’avevo mai fatto. Abitudine che ho conservato: ancora oggi leggo un libro a settimana. Ma i miei shock culturali li ho vissuti anche prima».

Racconti.

«Andavamo spesso a Venezia, città nella quale poi ci siamo trasferiti definitivamente nel 1979. Ma agli inizi dei ‘70, potevo avere 11-12 anni, mi è capitato di assistere a una performance del Living Theater in piazza San Marco. E prima ancora alla proiezione di un film di Charlie Chaplin: lui stesso si affacciò da un balcone per salutare il pubblico, direi quasi per benedirlo».

Si può immaginare dunque un’adolescenza segnata da queste passioni…

«Soprattutto la passione per il cinema. Frequentavo i cineclub dell’epoca e della mia comitiva facevano parte anche i gemelli Bruno e Sergio Fermariello, che sarebbe diventato un affermato pittore. Frequentavamo il centro storico: in quegli anni cosa insolita per dei ragazzi del Vomero come noi. Finito il liceo, mi ero iscritto a Economia politica, poi capii che non era nelle mie corde e passai a Lettere».

Prima dei vent’anni il trasferimento a Venezia: decisivo?

«Sì perché fu a Venezia che ho scoperto, nei primi anni Ottanta, che le cose che mi piacevano potevano diventare un lavoro. Entrai alla Mostra del cinema come usciere. In una pausa feci un disegno: un signore in giacca e cravatta, dai lineamenti felini. Per puro caso la vide il grande critico Gian Luigi Rondi: interpretò il disegno come simbolo del ritorno dei Leoni d’oro a Venezia, dopo gli anni della contestazione in cui i premi erano stati aboliti. E mi chiese se poteva pubblicare il mio disegno sul suo giornale».

Nacque un rapporto di collaborazione?

«Rondi dirigeva gli Incontri internazionali di cinema di Sorrento e mi chiese di organizzargli la partecipazione degli studenti. Risposi sì, che problema c’è?, anche se non avevo idea di come avrei fatto».

E come fece?

«Mi alzavo presto la mattina e andavo davanti alle sedi universitarie con dei manifesti scritti a mano: c’erano il programma del festival e dei numeri di telefono. Gli studenti chiamavano, si prenotavano, io li portavo con dei bus da piazza Municipio a Sorrento. Al festival conobbi Jean Digne, che dirigeva il Grenoble. Mi chiese di collaborare per dare un impulso alle attività teatrali e cinematografiche. Fu così che conobbi Luciano Stella, insieme al quale creammo una società, Zelig».

E la sua carriera cominciò a decollare.

«Intanto avevo anche cominciato a insegnare a Roma, università La Sapienza. Nel 2008 nacque il Napoli Teatro Festival e il direttore Quaglia mi chiese di curarne la comunicazione: i modelli erano i festival di Edimburgo e Avignone. Ricordiamo che in quel periodo Napoli non aveva certo una bella immagine, era letteralmente sommersa dall’immondizia».

Un lavoro duro, dunque.

«Decidemmo di cancellare qualunque comunicazione mediatica e di allestire una strategia porta-a-porta. Incontrammo la grande comunità italiana del teatro, gli appassionati, gli studiosi. Un vero e proprio tour, 400 date in circa 200 tra teatri e accademie. Mi servì insomma l’esperienza di Sorrento con gli studenti: fare le cose in prima persona, parlare direttamente alla gente. E tenga conto che la grande rivoluzione della comunicazione, il web, i social, era già esplosa. Ma noi agimmo in controtendenza e ci andò bene».

E dopo?

«Con la rinuncia di Roberto Vecchioni a dirigere il Forum delle culture voluto dal sindaco De Magistris, nel maggio 2014 mi proposero di assumere il ruolo di commissario, quindi insieme la direzione artistica e quella amministrativa. Sette giorni dopo avevo un piccolo staff di tre persone, con 16 milioni da spendere e 700 progetti. Andammo avanti tra mille polemiche: fu un evento culturale molto importante, ma certo non ha cambiato la città».

E lei come reagì?

«Continuai a gestire la fondazione: debiti da ripianare, crediti mai riscossi, progetti non rendicontati. Andammo avanti fino alla fine del 2015. Intanto venni a sapere che a Siena cercavano un direttore per il complesso museale di Santa Maria della Scala: partecipai, vinsi e feci il direttore per tre anni. Quel museo aveva 50mila visitatori l’anno, l’80 per cento non paganti: i cittadini senesi entrano gratis. Tre anni dopo, alla fine del mio mandato, ne avevamo 210mila».

Un uomo di cultura umanistica che si ritrova ad amministrare conti e a ripianare debiti. Un pragmatismo insospettabile.

«Ma le sfide mi piacciono, non mi sottraggo ai cambiamenti, quello che non conosco mi attira più di quello che conosco. Va anche detto però che ogni volta che ti ritrovi a fare cose nuove devi studiare. Io l’ho sempre fatto: è fondamentale documentarsi, leggere i testi, conoscere le leggi. Se necessario, devi essere pronto a passare le nottate a studiare».

Come arriviamo al Parco della musica di Roma?

«Beh, dopo Siena andai a Modena a dirigere la Fondazione delle arti visive. Arrivò la pandemia, per fortuna il lockdown l’ho fatto a Napoli, città che non ho mai lasciato e in cui ho sempre trascorso perlomeno i weekend, con la mia compagna e mia figlia. Una mia studentessa e collaboratrice mandò per me alla sindaca di Roma, Virginia Raggi, il mio curriculum».

E che accadde?

«Il 4 maggio 2020, mentre ero in treno, ricevetti una telefonata della Raggi: “La vorrei come amministratore della Fondazione. Mi risponda entro domani, per favore”. Ero incredulo ma ovviamente accettai».

E come andò?

«Non è stato facile. Ai tempi non sapevamo nulla della pandemia, per quel che ne sapevamo poteva anche durare anni. Come avremmo fatto a far funzione una macchina che costa 10 milioni l’anno? Ma è andata bene: quattro sale sempre in attività, chiusi solo a Natale e due settimane ad agosto. Grazie agli incassi che facciamo con i grandi eventi sosteniamo la progettualità: la musica più di nicchia, la creazione di una band residente diretta da Gigi De Rienzo, l’etichetta discografica, i progetti per i bambini. Mi creda: per grandezza, bellezza, vitalità, non esiste al mondo un posto come il Parco della musica».

Fonte: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2024/06/16/news/daniele_pitteri_guardando_chaplin_ho_capito_che_la_passione_puo_diventare_un_lavoro-423239655/?rss

spot_img
spot_img

Cosa fare in città

Archivi