Ultimi scampoli di estate e mi occupo di teologia e politica, vita credente e impegno per la trasformazione della terra. Leggo e mi appassiono a pagine scritte da Johann Baptist Metz, un gigante della teologia del Novecento, padre della teologia politica, dello stesso rango e levatura del suo “maestro di sempre” Karl Rahner. Un pensatore capace di leggere i “segni dei tempi”. Ma soprattutto un prete e un pastore d’anime.
“La teoria teologica non autorizza nessuna astrazione dai problemi del mondo reale, del diritto e della libertà”, scriveva Metz, concependo la sua ricerca teologica come lettura del reale e incarnazione nella storia, come teologia politica nuova intesa come correttivo critico di una religione privatizzata e rinchiusa nella sfera dell’interiorità. Una teologia che scaturisce dalla fede non solo come idea nell’Assoluto ma come “prassi della storia e della società, una prassi che intenda se stessa come speranza solidaristica nel Dio come Dio dei vivi e dei morti, che tutti chiama ad essere soggetti al suo cospetto”.
Il messaggio di Gesù rimanda a un preciso rapporto con il mondo e la liberazione che esso porta con sé è anche liberazione dalla cristallizzazione dei rapporti sociali come ribadisce il Concilio: bisogna conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatiche (GS,4).
La prima metà del secolo scorso aveva portato la teologia a interrogarsi sul modo in cui la Chiesa deve confrontarsi con il mondo, provocazione che trovava sintesi profetica in Von Balthasar circa la necessità di “abbattere i bastioni”, di respirare l’aria nuova del mondo e ripensare una chiesa non più “sopra” o “contro” di esso, ma “per” e “a servizio” dello stesso. L’elaborazione di una teologia del lavoro, dell’economia, della famiglia, del progresso è stata dopo il Concilio una risposta a questa esigenza come lo è stata, e lo è ancora, la rivendicazione di chi vuole storicizzare la propria fede grazie a una teologia politica. Economia, cultura, istituzioni sociali sono un bene in sé, hanno un valore e leggi proprie, autonome nel loro percorso, ma sono un terreno comune per tutti gli uomini di buona volontà. Lo è la politica che nel suo essere laica non può escludere la contaminazione credente in quanto proposta concreta di convivenza, al servizio dell’uomo e pertanto interessa la fede, la provoca, la interpella.
La proposta teologica elaborata da Metz non intende ridurre la fede a politica, né sostituire il cristianesimo con l’umanesimo, né ancora meno dimentica le dimensioni intellettuali ed esistenziali della fede, ma vuole restare a fianco dell’uomo, sentire le ansie e le attese della storia e soprattutto rendersi compagna delle sofferenze degli esiliati dal dolore. Essere speranza di futuro per coloro che non hanno più futuro “il compito antico e sempre identico della teologia — di parlare di Dio e di testimoniare la sua parola — nelle condizioni e secondo le esigenze di ogni situazione storica”.
Metz arriva a questa convinzione attraverso un travaglio personale e struggente, travaglio della storia contemporanea segnata dalle tre grandi “crisi” del secolo scorso con cui egli si confronta: la sfida marxista alla teologia, Auschwitz e la negatività della storia, la provocazione del Terzo Mondo. Il limite della teologia moderna consisterebbe per Metz nel non aver saputo fronteggiare la secolarizzazione, causando una “strana e pericolosa schizofrenia tra teoria teologica e prassi religiosa”.
La teologia invece deve essere incarnata, deve reggere il confronto con il vissuto dell’uomo, “dovrebbe passare da una generica accettazione degli impulsi moderni e da una posizione di secolarizzazione astratta, a una teologia politica” poter diventare una ermeneutica teologica nel contesto sociale contemporaneo, uscendo fuori da una teologia privatizzata, che prescinde dal carattere sociale della rivelazione e della salvezza. Metz ha aperto uno squarcio nel pensiero teologico ancora troppo chiuso in tanti convincimenti solo intellettuali, c’è spazio, invece, per poter organizzare una teologia della prassi come prassi di liberazione.
E se le chiese si svuotano è anche perché la teologia è ripiegata su stessa.