Con Matteo Renzi si ha spesso l’impressione di avere a che fare con un “maestro” di quella tattica che non ha il tempo di farsi strategia. E così anche adesso, l’intervista rilasciata qualche giorno fa al Corriere della Sera lascia, in fondo, questa sensazione. Che, cioè, il suo strepitoso fiuto politico rimanga confinato entro l’arte del continuo riposizionamento, piuttosto della costruzione profonda di una stabile visione.
Cosa ha detto Renzi? Ha sostanzialmente dichiarato la morte del terzo polo, ha giurato fedeltà al campo largo, dicendosi disposto ad alleanze territoriali e nazionali anche con Conte e con la sinistra radicale, ha vaticinato la fine del governo Meloni e le elezioni anticipate. Ha poi suggerito l’adozione di un contratto di programma, in stile tedesco, per fissare i punti principali di un accordo condiviso con tutte le altre forze della futura coalizione, vista la innegabile distanza che attualmente le separa.
La svolta, del tutto auspicabile e positiva, spariglia ancora una volta il quadro politico e costringe i vari attori in campo a rispondergli. Finora senza grandi applausi, neppure dalle sue parti. Invece, chiunque guardi con favore alla costruzione di una alternativa di governo alla destra non può che compiacersi di questo cambio di direzione. Il cui unico limite consiste nel fatto di essere l’ennesimo.
Veniamo al merito. La scelta di campo del centrosinistra, compiuta rimandando a nobili esempi (il De Gasperi ispiratore del “partito di centro che guarda a sinistra”, a definire la Dc dell’epoca) appare muoversi ancora troppo nell’ambito della “risposta” alle circostanze politiche, piuttosto che di una “proposta” convinta e spontanea per il cambiamento. Il che è un paradosso proprio per Renzi. Che ha sempre sostenuto la necessità della omogeneità contenutistica delle coalizioni. Si sta insieme se si hanno idee comuni, non per sconfiggere lo stesso nemico.
Lo stesso Renzi lo riconosce, ancora una volta, nell’intervista. È proprio questo il punto. Il suo nuovo posizionamento sembra, infatti, più una reazione alla necessità di creare un fronte unico contro le destre che una matura e convinta proposta di governo fondata su punti in comune. In sostanza, una rievocazione di quanto accaduto recentemente in Francia. E diversamente da quanto si è verificato in Inghilterra. In Francia, il Nuovo Fronte Popolare e tutti i partiti democratici contro Le Pen. Vittoria importante ma nessuna prospettiva di governo unitario. In Inghilterra, invece, il segretario del Partito laburista Keir Starmer diventa premier dopo un turno elettorale che ha premiato una proposta politica chiara, che ha avuto il tempo di maturare e definirsi negli anni dell’opposizione ai conservatori. Quest’ultima è la strada da seguire.
La stessa, lodevole, presa di posizione contro l’Autonomia differenziata, che Renzi ha annunciato di volere avviare partendo proprio da Napoli la prossima settimana, è l’ennesima conferma di come sia molto più facile unirsi contro qualcuno o qualcosa, piuttosto che realizzare un comune sentire. La costruzione di una coalizione, infatti, deve gioco forza fondarsi su un lavoro, quotidiano e continuo, di confronto e di soluzione comune dei problemi. Politica estera, giustizia, ricette economiche, politiche del lavoro, sono scogli che allo stato appaiono insuperabili, tale e tanta è la diversità di posizioni tra i soggetti di questo “nuovo campo largo”.
Lo stesso ricorso, evocato da Renzi, ad un contratto di programma tra le forze della coalizione, non appare decisivo. E anzi evoca, sotto molti aspetti, lo spettro nefasto dell’Unione di Romano Prodi. In quel contesto, dopo estenuanti confronti, la coalizione di centrosinistra produsse un programma di 262 pagine, deflagratosi poco dopo di fronte alla completa disomogeneità delle forze dell’alleanza, che poi affossarono Prodi in Parlamento. Quindi, un contratto di programma non vincolerebbe i partiti ad alcunché. E la riprova si è avuta proprio di recente, quando l’analogo contratto di governo sottoscritto dai partiti dell’alleanza gialloverde del Conte I si liquefece dopo un anno, lasciando spazio a un esecutivo, di segno opposto, tra Pd e 5 Stelle. Quel contratto si rivelò essere, a posteriori, meno che carta straccia. In particolare, poi, nemmeno il richiamo al “contratto di coalizione” di stampo tedesco ha molto senso. In Germania, l’accordo di programma che vincola i partiti a rispettarlo ha il rango di una consuetudine o di una convenzione costituzionale, dovuta alla presenza di un diverso contesto di riferimento dove la stabilità politica, l’esistenza dell’istituto della sfiducia costruttiva, il ruolo costituzionalmente riconosciuto ai partiti, conferiscono a quell’accordo una forza e una solidità che in Italia non avrebbe mai. Qui un contratto di tal fatta resterebbe limitato entro una sfera meramente privatistica. Con un’efficacia vincolante per chi lo sottoscrive del tutto minimale. Sarebbe, cioè, un fenomeno interamente valutabile entro i confini della coerenza, o dell’incoerenza, dell’azione politica. La costruzione dell’alternativa di governo, perciò, non può esaurirsi entro il perimetro di qualche giravolta tattica o di estemporanei buoni propositi. Necessita di un lavoro continuo e costante di saldatura culturale e politica attorno ai principali temi del dibattito pubblico. Oltre che di un ineludibile processo di semplificazione dei soggetti politici, di un programma coeso e omogeneo, di una leadership riconosciuta. Questa è la sfida che, da l’altro ieri, avrebbero dovuto accettare i partiti del centrosinistra. La stessa guerra dichiarata in pompa magna all’autonomia differenziata, o al premierato, avrà un senso solo se contestualmente si proporrà all’elettorato una visione alternativa a quella sostenuta dal Governo. Diversamente, il rischio sarà quello di creare l’ennesima, strampalata accozzaglia. Un’arca di Noè 4.0 con tutti sopra, ma con niente dentro.