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Anime e “capuzzelle” storia d’arte e umanità del Purgatorio ad Arco

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“Nel Purgatorio ad Arco la morte non si patisce, ma si accarezza” è la frase che la storica dell’arte Francesca Amirante pone a conclusione del suo saggio introduttivo.

Ma potrebbe essere l’epigrafe dell’intera opera: parliamo de “Il complesso di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco a Napoli”, il volume appena pubblicato da 5 Continents Editions, che racconta la secolare storia di arte, vita e umanità della chiesa e dell’intero complesso museale del Purgatorio ad Arco.

Amirante la racconta con le parole dei numerosi saggi raccolti nel libro, ma ancor più con le immagini del fotografo Luigi Spina, frutto di una raffinata ricerca visiva.

La chiesa di via Tribunali dove il culto delle anime dei morti diventa arte e gli scheletri, i crani, i femori mostrano il rapporto stretto dei napoletani con la morte in generale e con la morte di persone, anche sconosciute, di cui “adottare” l’anima per abbreviare, attraverso preghiere e carezze, la permanenza in Purgatorio, ha conquistato nei secoli schiere di fedeli e, di recente, turisti a frotte.

Il volume porta “fuori dalle mura della chiesa, dell’ipogeo e del palazzo l’articolato patrimonio di arte e umanità che il Purgatorio ad Arco custodisce” afferma Giuseppe d’Acunto, il presidente dell’Opera Pia Purgatorio ad Arco che firma l’introduzione al libro. Che ha l’obiettivo ambizioso di “far viaggiare il complesso monumentale e le sue anime pezzentelle (quelle che chiedevano l’aiuto dei vivi per abbreviare il loro Purgatorio, ndr) in tutto il mondo”, con attente analisi dei capolavori di grandi pittori come Massimo Stanzione, Andrea Vaccaro, Luca Giordano, Andrea Falcone, Girolamo Dello Mastro, Dionisio Lazzari, nonché della scultura contemporanea dell’artista belga Jan Fabre (“Il numero 85 con ali d’angelo” che si ispira al grande teschio alato simbolo della chiesa), ma valorizzando anche il patrimonio antropologico qui custodito nell’ipogeo e nella chiesa, tra arredi scuri e legni neri.

Scelti, nel Seicento, per dare solennità alla chiesa che sin dalla sua fondazione doveva essere il luogo in cui celebrare messe per i defunti: almeno trentatrè al giorno, ma in alcuni periodi anche cento (troppe, per essere celebrate tutte lì, e allora si cercava ospitalità in altri vicini luoghi di culto).

A riprova di un rapporto strettissimo tra i fedeli e le anime del Purgatorio, un rapporto evidentemente reciproco: si prega per alleviare il percorso purgatoriale delle anime, ma ci si aspetta, in cambio, perché no?, un significativo aiuto anche durante la vita terrena. E non si prega solo per le anime dei parenti, anzi. Alle ‘anime scurdate’ si offre volentieri il ‘rifrisco’, il rinfresco possibile anche con le preghiere dei vivi.

Francesca Amirante, che del Complesso è anche la direttrice e da anni dà al Museo dell’Opera slancio e vitalità, racconta la storia del Purgatorio ad Arco spulciando nell’Archivio storico dell’Opera Pia oltre che ripercorrendo la storia dell’arte, la storia architettonica, la storia, insomma, della città. Di quella Napoli dove — ed è un unicum al mondo — la pratica dell’adozione della “capuzzella” (il teschio riesumato di un’anima senza nome) da strofinare per renderla lucida e pura, non si è persa neppure quando il cardinale Ursi, nel 1969, proibì per decreto il culto per i resti anonimi, per quelle ossa senza paternità, un culto che si temeva inclinasse alla superstizione e allo sfruttamento dei morti.

Le edicole che nell’ipogeo ospitavano le ossa vennero coperte, schermate. Invano, perché la devozione subì appena un rallentamento, mai uno stop. Ed oggi ad adottare le capuzzelle sono anche i turisti che visitano il Purgatorio ad Arco per i suoi tesori artistici (oltre ai dipinti: sculture, argenti, paramenti, arredi) e per carezzare quei teschi che sono altresì parte del patrimonio diffuso della città.

Fonte: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2024/04/08/news/anime_e_capuzzelle_storia_darte_e_umanita_del_purgatorio_ad_arco-422440497/?rss

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