Oggi è Pasqua, potenza di parola che lega insieme la cronaca degli avvenimenti e la simbologia insita nel racconto dei Vangeli che ci dà la possibilità di scorgere significati più remoti e ci lascia intravedere un cielo aperto sulla storia degli uomini. Un cielo, finalmente consegnato alla speranza, non più distante, non più contrapposto, non più limite tra la storia di Dio e la storia umana. Pasqua, Pesach, un “passare oltre” che ci riporta alla Pasqua ebraica che celebrava, nel passaggio del Mar Rosso, la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto. Per i cristiani è agguantare in Cristo Risorto un futuro rinnovato e liberato dalla morte, futuro che dice speranza e apre frontiere di ottimismo malgrado tutto. Le religioni in genere si consumano nella contemplazione del solo cielo e il più delle volte si chiudono nelle sole pratiche, nelle preghiere, nelle liturgie, in questo guardare al cielo come risposta al presente e molto spesso come fuga dal tempo.
Marx, infatti, a ragione o a torto, e altri dopo di lui, malgrado o proprio grazie a questo atteggiamento, ha detto che le religioni sono oppio dei popoli, una sorta di droga per non farci pensare alla responsabilità del presente, all’impegno e al dovere della trasformazione del mondo in bene. Con la resurrezione, invece, il credente sfida il futuro, forte della consapevolezza che finalmente il cielo si apre: “La resurrezione è un avvenimento cosmico, che comprende cielo e terra e li associa l’uno all’altra”. Sfida la fede a trovare senso alla vita grazie al cielo, puntando con decisione al futuro salvato, ma con i piedi ben piantati nella verità del tempo, nella consapevolezza che non si fugge dalle responsabilità della storia. Ricordo una preghiera di un anonimo medievale, che spesso ripetevo da giovane prete, che dice come dovrebbe essere il prete, e di sicuro è riferibile a tutti: “Il prete è colui che, teso in alto, ha i piedi ben piantati sulla terra”. Non possiamo limitarci a guardare quel cielo a cui aspiriamo, ma curare il mondo con il Vangelo è responsabilità ineludibile. Perché essere credenti significa che ognuno, per la propria parte, nei propri spazi, secondo le proprie possibilità, come può, quando può, al di là delle occasioni, deve essere pronto a raccontare la propria fede. Essere credenti è compromettersi con il mondo, è andare a scegliere quei luoghi più difficili per raccontare la buona notizia. Papa Francesco insegna: “Il futuro lo fai tu, con le tue mani, con il tuo cuore, con il tuo amore, con le tue passioni, con i tuoi sogni. Con gli altri”. Ognuno deve trovare la forza nella contemplazione del futuro e dare senso e significato al presente, ognuno col mandato che ha ricevuto: uomo, donna, marito, moglie, nella propria professione, nei propri luoghi, nelle proprie possibilità, senza vergognarsi della propria fede, senza farla diventare solo un’esperienza intima.
Questo è un passaggio fondamentale: la fede per il cristiano non ha nulla di privato, non è un’esperienza interiore tra noi e Dio, ma riguarda noi, Dio e gli altri. Se oggi viviamo una profonda crisi di vangelo, una crisi di chiesa, è perché c’è una crisi più ampia derivante dal fatto che noi cristiani, il più delle volte, siamo cristiani rassegnati nelle mura di una chiesa, in quelle poche osservanze che ormai sono rimaste in piedi. C’è una rivoluzione che il cristianesimo ha inaugurato, una rivoluzione che purtroppo, anche il cristianesimo, man mano, per colpa di strutture ecclesiastiche fuori del tempo, ha rallentato fino a perdere l’originaria fragranza, tanto che la fede si è codificata in una religione rituale, più che in un avvenimento che possa garantire nell’amore il rispetto dell’altro in quanto tale e recuperare il valore sconvolgente della parola fratello. Una parola rivoluzionaria perché in ogni uomo, nella propria differenza, nel rispetto del proprio contesto è presente Dio, dinanzi al quale, bisogna inginocchiarsi. Buona Pasqua, allora, amici conosciuti e sconosciuti, credenti e non, oggi è giorno in cui sia augura un passaggio, quasi un salto, dalla morte alla vita come senso ultimo, da ogni morte, qualsiasi volto abbia, ad una vita nuova. E penso che ce ne sia davvero bisogno.