Napoli — La consideravano come una criminalità di paese, invece era Gomorra. «Le nostre indagini ci fecero comprendere una realtà che, al di fuori dalla provincia di Caserta, era totalmente ignorata. Il territorio era controllato da una camorra armata che, con mitra spianati, cortei di automobili e raffiche di proiettili esplose nelle strade, urlava a gran voce alla gente: qui comandiamo noi. Un messaggio terroristico», racconta Federico Cafiero de Raho.
Era sostituto procuratore quando, agli inizi degli anni ‘90, nelle stanze anguste e malsane di Castel Capuano, il vecchio palazzo di giustizia di Napoli, iniziò a indagare sul clan dei Casalesi insieme a un altro magistrato, l’esperto Lucio Di Pietro, all’epoca alla Direzione nazionale antimafia. Di lì a poco, insieme a un gruppo di investigatori di primo livello, avrebbero scoperto una cosca capace di estendere i suoi affari ben al di là dei confini della Campania. Dopo aver guidato la procura di Reggio Calabria e la Procura nazionale, oggi Cafiero de Raho è parlamentare dei Cinque stelle e vicepresidente della commissione Antimafia. E commenta il clamoroso pentimento di Francesco Schiavone, “Sandokan”.
Come avete scoperto la Gomorra di Casal di Principe, onorevole Cafiero de Raho?
«Il lavoro investigativo fece emergere la forza straordinaria di un’organizzazione criminale che si muoveva con sfrontatezza, anche platealmente, sul suo territorio, ma che era capace, al tempo stesso, di mimetizzarsi quando si muoveva al di là dei confini della provincia. Alla forza militare, univa una disponibilità economica che non si cosoceva. Ci rendemmo conto, invece, che il clan dei Casalesi era riuscito a infiltrare le sue imprese negli appalti più importanti sin dalla ricostruzione post terremoto del 1980 e così negli anni successivi, come nel caso dell’Alta velocità. Inquinando gli appalti, avevano fatto lievitare enormemente la spesa pubblica».
Era una stagione di profonde collusioni e omertà, vero?
«Sicuramente le modalità terroristiche con le quali il clan si muoveva sul territorio rendevano molto difficile, per i cittadini, esporsi con denunce aperte. Esistevano anche rapporti di complicità con la politica, basti pensare che, il 13 dicembre del 1990, fu interrotto a Casal di Principe un vertice di camorra che si stava svolgendo in casa di un assessore comunale. Però esistevano anche personalità che si opponevano, come don Giuseppe Diana (il parroco assassinato in chiesa a Casal di Principe il 19 marzo del 1994, ndr) che nelle sue omelie rimproverava ai camorristi e alle loro famiglie di aver seguito un percorso lontano dalla legalità».
In questo scenario, quale ruolo occupava Francesco Schiavone detto “Sandokan”?
«È stato il camorrista che più di ogni altro ha impersonificato il modello di capo del clan dei Casalesi. Nel processo “Spartacus”, i collaboratori di giustizia lo hanno sempre indicato come un capo coerente con le regole della camorra, al quale gli affiliati hanno sempre riconosciuto le doti di leader. Il soggetto che, al di sopra di tutti gli altri, impartiva gli ordini che poi venivano eseguiti».
È in carcere dal 1998. Ha ancora senso una sua collaborazione con la giustizia?
«Assolutamente sì, anzi può essere indubbiamente molto rilevante. Francesco Schiavone è colui che conosce i segreti del clan, da quando operava con Antonio Bardellino (il fondatore della cosca sparito nel nulla e, secondo le sentenze, assassinato in Brasile nel 1988, ndr) e poi in tutti gli anni a seguire. Conosce i nomi di chi ha fatto parte della rete di imprenditori che hanno stretto accordi e affari e sa dove è nascosta la cassaforte del clan che non è mai stata trovata. E poi c’è un’altra ragione che rende questa collaborazione estremamente significativa».
Quale?
«In una delle lettere scritte negli anni scorsi dal carcere, Schiavone diceva ai suoi familiari che non avrebbe scelto di fare quella vita se avesse saputo che sarebbe stato costretto a rimanere così tanto tempo lontano dai familiari. Ecco, per qualunque uomo il ruolo della famiglia è importante. Francesco Schiavone aveva un legame strettissimo con i suoi congiunti ed è stato per anni lontano da loro perché detenuto in regime di carcere duro. Oggi potrebbe lanciare un messaggio potente: potrebbe dire a tutti che far parte della camorra non paga, ma anzi determina un allontanamento dagli affetti, dalla famiglia e da tutto ciò che è davvero importante nella vita di un uomo».
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